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      Fin da quel giorno si parlava sempre d'Emilia come di una nostra comune fiamma, ed io mi persuasi con la più grande facilità del mondo che n'ero innamorato alla follia: ma quanto all'andare a vederla non ci fu caso che mio fratello mi potesse mai persuadere. "Se vuoi," gli dissi un giorno, "potremmo farle una serenata". Cesare strimpellava il violino, ed io avevo imparato ad accompagnarlo con la chitarra. Questa idea ci parve bellissima.
      Sapendo a memoria due o tre suonate, fissammo di mettere una sera in esecuzione la nostra idea, la quale però aveva le sue difficoltà. Era stretta regola di famiglia che ognuno di noi dovesse essere a casa alle nove, l'ora della cena; l'assenza o il più piccolo ritardo ai pasti consueti era agli occhi di mio padre un delitto di lesa famiglia. Dopo cena chiudeva da sé la porta di casa, dalla quale era poco lontana la sua camera, di modo che non era facile aprire senza essere sentiti. Ma di che cosa non sono capaci i giovani che s'immaginano d'essere innamorati? A forza d'unto e di pazienza, e grazie al nostro fratello maggiore che ci tenne mano e s'incaricò di chiudere la porta dopo di noi e di rimettere i chiavistelli, potemmo fare la nostra scappata. Ma quanto al tornare prima della mattina, non c'era neanche da pensarci, non potendo arrischiarci, per timore d'essere scoperti, a chiuder la porta col solo saliscendi. Andammo adunque e facemmo la serenata sotto le finestre dell'addormentata bellezza. Ma, o la bella dormiva della grossa, o era insensibile, poiché non dette segno alcuno di vita.


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Lorenzo Benoni ovvero scene della vita di un italiano
di Giovanni Ruffini
pagine 471

   





Emilia