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      Seneca ha osservato che chi nell'amicizia si prefigge qualche cosa di più della pura amicizia, è capace di mancare a tutti i doveri dell'amicizia. Senza farci dello Stoico, quando io dico amico, dico un uomo per la vita del quale io sia sempre pronto a far più di quello che io non posso far per la mia; che vuol dire, a sacrificargli la mia vita medesima, la quale potendo io sacrificare all'onore e a dimolt'altre cose, solamente non posso sacrificarla a se stessa, ma posso bene, e intendo e voglio sacrificarla a quella dell'amico. Dico un uomo che, esiliato lui, m'intenda esiliato ancor io: un uomo che non abbia a far differenza dallo spender me allo spender quel che egli ha di più suo: che viva meco a comune non men di fortuna che di sentimenti, e che sia persuaso veramente di non poter farmi maggior piacere che mettermi a parte d'ogni disgrazia che gli venga o sia dal suo errore o dalla sua fortuna.
      Su questo principio, che io metto per fondamentale, il discorso di Lelio in Cicerone mi pare un po' troppo comodo. Io non posso, dice questo amico delicato, piagner la morte di Scipione. La nobile amicizia non ci consente questa debolezza se non pe' mali dell'amico. Scipione, e che ha perduto col morire? Una morte come la sua è stata una consumazione gloriosa della sua fama. Tra i Romani ei non era finalmente se non un uomo grande: adesso ei diventa un gran Dio ne' tempj di Roma, e cava altre lacrime dagli occhj de' suoi concittadini, col suo morire, ch'ei non cavava da quelli de' suoi nemici col suo trionfare.


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Opere slegate
di Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond
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