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      Io spesso udii Quinto Massimo, Publio Scipione, e altri de' migliori nostri, esclamare: Che essi, nelle imagini degli avi mirando, in petto ridestare sentivansi un'ardentissima brama di vera virtù: E la malía non istava per certo nel marmo o nella cera di quelle: la memoria bensì delle tante chiarissime imprese era il possente incentivo, che ne' cuori di quegli egregj uomini sublimava la fiamma divina, fintanto che con le loro virtù la fama e gloria degli antichi agguagliassero. Ma chi, in questi corrotti tempi, chi resta, che cogli avi non in ricchezze piuttosto ed in lusso, che nella industria o nella probità si attenti contendere? Gli uomini nuovi perfino, che prima solevano i nobili in virtù superare, di furto oramai, e più per via di ladronecci che d'arti buone, i comandi e gli onori si arrogano. Quasi che Preture, Consolati, e altri simili incarchi, fossero per se stessi alte cose, e non da chi li riempie ritraessero a vicenda o splendore od infamia. Ma io, troppo liberamente, com'uomo dei perversi costumi della città tediato e dolente, mi sono dal proposito mio traviato. È di venirvi omai tempo.
     
     
      V.
     
      A scrivere mi accingo la guerra dai Romani fatta al Re dei Numidi Giugurta; si perch'ell'era terribile e varia ed atroce; sì per aver da que' tempi cominciato il popol di Roma a cozzare coll'alterigia de' nobili: funesta contesa, che umane cose e divine sossopra mandando, a tal insania pervenne, che nelle continue civili guerre soltanto e nella desolazione totale d'Italia ebbe fine.


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C. Crispo Sallustio tradotto da Vittorio Alfieri
di Gaius Sallustius Crispus
1807 pagine 161

   





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