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      LXXXV.
     
      Ben m'è noto, Romani, che molti in un modo le magistrature richiedonvi; ed ottenute, in un altro le esercitano. Laboriosi, umili, moderati da prima; oziosi e superbi dappoi. Non io così: che, quanto reputo al Consolato e alla Pretura doversi antepor la repubblica, con tanta maggior cura m'è avviso doversi ella reggere, che non le di lei dignità ricercare. Io sento appien tutto, e l'onore, e la importanza del carico da voi affidatomi. La guerra intraprendere, e risparmiare l'erario; sforzatamente arruolarvi, e non dispiacervi; in città ed in campo ad ogni cosa provvedere; e ciò tutto operare fra cupida gente a me nemica e faziosa; un tale assunto, o Romani, più che voi nol credete, è scabroso. Altri in pari circostanze sbagliando, nella nobiltà del lor sangue, nelle avíte imprese, nelle ricchezze dei parenti ed amici, nelle turbe de' clienti, sostegno ritrovano: ma le speranze mie stanno tutte in me stesso; ed innocenza, e virtù (che il rimanente non giova) le avvalorano sole. Pendono, ben me n'avveggo, i Romani tutti or da Mario: i giusti e buoni, sperando che le opere mie alla Repubblica giovino; i nobili, di cogliermi in fallo cercando. Tanto quindi maggiore il mio impegno, perchè rimangan essi delusi, e voi paghi. Già sin da' miei anni più teneri, alla fatica avvezzo e ai pericoli, parvi, o Romani, che quanto gratuitamente operava io finora, rimuneratone poiscia dai benefizj vostri, il potrei io tralasciare? Moderarsi nell'autorità mal potranno coloro, che buoni si finsero per ambizione: in me, che tal crebbi e tal vissi pur sempre, l'assuefazione al ben fare è omai diventata natura.


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C. Crispo Sallustio tradotto da Vittorio Alfieri
di Gaius Sallustius Crispus
1807 pagine 161

   





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