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      A Roma era ripreso l'imperatore d'aver messo (dicevano) la falce nel seminato d'altri, essendo ogni prencipe obligato con strettissimi legami di censure all'estirpazione de' condannati dal pontefice romano; in che debbono ponere l'aver, lo Stato e la vita e tanto piú gli imperatori che fanno di ciò giuramenti tanto solenni. Ai quali avendo contravenuto Carlo con inaudito essempio, doversi temere di vederne presto la celeste vendetta. Ma altri commendavano la pietà e la prudenza dell'imperatore, il qual avesse anteposto il pericolo imminente al nome cristiano per le arme de' turchi, che de diretto oppugnano la religione, a' quali non averebbe potuto resistere senza assicurar i protestanti, cristiani essi ancora, se ben differenti dalli altri in qualche riti particolari, differenzia tolerabile. La massima tanto decantata in Roma, che convenga piú perseguitar gli eretici che gli infideli, essere ben accommodata al dominio pontificio, non però al beneficio della cristianità. Alcuni anco, senza considerare a' turchi, dicevano li regni e prencipati non doversi governare con le leggi et interessi de' preti, piú d'ogni altro interessati nella propria grandezza e commodi, ma secondo l'essigenza del publico bene, quale alle volte ricerca la toleranza di qualche difetto. Esser il debito d'ogni prencipe cristiano l'operare ugualmente che i soggetti suoi tengano la vera fede, come anco che osservino tutti i commandamenti divini, e non piú quello che questo. Con tutto ciò, quando un vizio non si può estirpare senza ruina dello Stato, esser grato alla Maestà divina che sia permesso, né esser maggior l'obligo di punir gli eretici che i fornicatori, quali se si permettono per publica quiete, non esser maggior inconveniente se si permetteranno quelli che non tengono tutte le nostre opinioni.


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Istoria del Concilio Tridentino
di Paolo Sarpi
pagine 1561

   





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