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      Ebbe gran sospetto dello spirito et animosità de' spagnoli; considerava le qualità della nazione avveduta e che non opera a caso, mostra maggior riverenza che non porta, sta unita in se stessa, e non fa un passo senza aver la mira a cento piú inanzi; gli parve gran cosa l'aver preso a ridursi insieme e l'aver formato una censura per commune: gli pareva verisimile che ciò fosse ardito per fomento dell'imperatore, essendoci un suo ambasciatore che trattava quotidianamente con loro. Aveva anco per altro sospetto Cesare, considerando la prosperità della fortuna che in quel tempo correva, la qual suol indur gli uomini a non saper metter fine a' dissegni: faceva riflesso sopra il permetter la religione per connivenza, attribuendo che fosse a fine d'acquistar la grazia de' luterani. Considerava le querimonie usate non solo dall'imperatore, ma anco da' ministri al partir delle genti italiane, l'aversi doluto d'esser abandonato nel bisogno; dubitava di lui, sapendo che attribuiva al duca di Piacenza, suo figlio, la sedizione di Genova. Sopra tutto ponderava le parole dette al noncio, di non aver maggior nimico del papa: temeva, che se gli fosse venuto fatto di stabilir in Germania un'autorità assoluta, fosse poi entrato in pensiero di far l'istesso in Italia, adoperando il concilio per opprimer il ponteficato. Vedeva che restava come arbitro, attesa l'incurabil indisposizione del re di Francia e la prossima morte che si prevedeva. Del delfino non sapeva quanto potersi promettere, come di giovane non ancora esperto; teneva per fermo che i prelati, quali sino allora aderivano alla corte romana, quando l'imperatore avesse fatto alla scoperta, s'averebbono dicchiarato per lui, o per timore della maggior potenza, overo per emulazione che tutti hanno alla grandezza ponteficia, la qual scoprirebbono, quando vedessero aperta strada sicura di moderarla.


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Istoria del Concilio Tridentino
di Paolo Sarpi
pagine 1561

   





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