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      Tale era l’uomo, che raccolse la sfida lanciata da Platone agli astronomi del suo tempo. Per risolvere il grande problema, e per giungere ad una spiegazione razionale dei movimenti celesti, occorreva anzitutto stabilire un principio, intorno al quale tutti si potessero accordare. E questo fu, che la composizione del mondo dovesse essere ordinata secondo una legge unica e generale32. Agli astronomi greci mancava la legge fisica della gravitazione universale; dovettero dunque tenersi a leggi geometriche, sotto pena di cadere nell’arbitrario. Ora la rivoluzione quotidiana delle fisse offriva un moto circolare ed uniforme; circolare ed uniforme appariva pure il moto del Sole e della Luna alle osservazioni di quel tempo. Poichè i movimenti degli astri doveano dipendere tutti dalle medesime leggi, giustamente fu concluso per analogia, che le anomalie osservate nel corso dei pianeti dovessero esser soltanto apparenti, e dovessero risolversi anch’esse nella combinazione di più moti circolari ed uniformi. Questo assioma, di cui, per testimonianza di Gemino33, il primo enunciato si deve ai Pitagorici, fu da tutta l’antichità posto come base inconcussa delle ipotesi astronomiche, e con ragione; infatti, checchè oggi se ne voglia dire, gli antichi fuori di esso non avrebbero trovato che l’arbitrio ed il caos. Tale assioma conservò in astronomia intiera la sua autorità fino ai tempi di Keplero, il quale sostituì il moto ellittico al moto circolare. Tuttavia Keplero stesso obbedì ancora a questo principio, quando proclamò l’uniforme descrizione delle aree; e ad esso pure obbedirono, dopo di lui, Bouillaud e Seth Ward, quando immaginarono l’ipotesi ellittica semplice, in cui si suppone uniforme il movimento angolare dei pianeti intorno a quel fuoco dell’ellisse, che non è occupato dal Sole.


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Scritti sulla storia della astronomia antica
Tomo II
di Giovanni Virginio Schiaparelli
pagine 438

   





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