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      ». Se noi traduciamo qui uhhir per «è stata occultata», il senso corre perfettamente. Quei testi dunque, se non dimostrano vera l’ipotesi uhhuru = esser occulto, non però la contraddicono, anzi vi si adattano nel modo più naturale183.
      Notabile è il fatto che mentre gl’intervalli della visibilità di Venere sono enunciati col semplice izzaz, si dice cioè che essa rimane sempre visibile, gl’intervalli d’invisibilità portano un’aggiunta, e si dice che Venere ina šamê uhhar, cioè rimane occultata in cielo. Non è dunque sempre in cielo Venere, sia quando è visibile, sia quando è invisibile? Forse si potrebbe ravvisar qui l’intenzione di far sapere che Venere, anche quand’è invisibile, esiste tuttavia in cielo. Ma un’altra interpretazione mi pare più probabile, la quale dà anche ragione del trovarsi il verbo uhhuru adoperato soltanto per la Luna e per Venere nella letteratura cuneiforme fino ad oggi esplorata. Bisogna per questo ricordare il fatto che nella cosmologia babilonese il cielo non è limitato ad una semplice superficie azzurra tempestata di stelle, ma rappresenta anche, nel senso dell’altezza, tutto lo spazio indefinito che sta sopra quella superficie. Ivi è il mondo superiore, opposto per contrasto alla Terra, che è il mondo inferiore; colà è la sede propria degli Dei, quella che nell’epopea di Gilgameš è chiamata il cielo di Anu. In questo cielo dunque starebbero occultate la Luna e Venere durante il tempo ch’esse sono invisibili, cioè nell'intervallo che passa fra una disparizione e l'apparizione consecutiva.


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Scritti sulla storia della astronomia antica
Tomo III
di Giovanni Virginio Schiaparelli
pagine 336

   





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