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      Le grandi variazioni dello splendore apparente di Venere dipendenti dalle sue fasi e dalle sue varie distanze, e il diverso grado d’intensità con cui il Sole illumina il fondo del cielo nelle diverse parti dell’emisfero visibile e nelle diverse ore del giorno e del crepuscolo, abbagliando gli occhi in differente misura, bastano a dar conto della sovraesposta singolarità. Ma di tali sottigliezze non è probabile che i Babilonesi avessero la minima idea. Non avevano alcuna ragione di pensare che la facella di Ištar dovesse ardere or più or meno secondo i tempi; e quanto alla Luna, non solo per loro, ma neppure per noi vi è motivo di credere che una piccola area presa sul disco lunare presso al plenilunio, mandi al nostro occhio una luce maggiore che un’area di uguale ampiezza apparente presa sulla sottil falce, la quale segna l’ultima visibilità della Luna in sull’alba prima della congiunzione col Sole. Pertanto gli astronomi babilonesi furono condotti a concludere che la totale invisibilità di Venere e della Luna presso le loro congiunzioni col Sole, fosse dovuta, non alla luce di questo, insufficiente a produrla in altre occasioni, ma ad un vero e proprio occultarsi, dei due astri nelle regioni celesti superiori al firmamento stellato. Così s’intende perchè il verbo uhhuru fosse usato soltanto per la Luna e per Venere, non mai per gli altri pianeti nè per le stelle fisse.
      e) In oriente, in occidente. - Queste frasi, che così spesso ricorrono in entrambi i nostri documenti, sono espresse nel testo originale da ina sît šamši e da ina erèb šamši, che letteralmente si tradurrebbero nel levare del Sole e nel tramontare del Sole.


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Scritti sulla storia della astronomia antica
Tomo III
di Giovanni Virginio Schiaparelli
pagine 336

   





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