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      Si ritenne non conveniente al privilegio della ragione, che l'essere, il quale ne è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infinità di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tanto dolore, di sì grande angoscia e sofferenza, quanta ne può sorgere dal tumultuoso impeto della brama o dell'avversione: e ciò per l'effetto del momento presente, e per i casi che i pochi anni d'una sì breve, fugace, incerta vita possono contenere. E si pensò che il conveniente uso della ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo male, renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: ???? ???????? ?????, ? ?????? (aut mentem parandam, aut laqueum, Plut., De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita è così piena di tormenti e di molestie, che conviene o collocarsene fuori mediante la saviezza del pensiero, o abbandonarla. Si comprese che la privazione, il soffrire, non nascono direttamente e necessariamente dal non avere, bensì dal voler avere e non avere; che quindi questo voler avere è la condizione necessaria, per la quale il non avere diventa privazione, e genera il dolore. ?? ????? ????? ????????, ??? ???????? (non paupertas dolorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conobbe inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idea d'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il desiderio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili, né gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensì solo l'insignificante misura maggiore o minore di ciò che l'uomo può raggiungere o evitare.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo I
di Arthur Schopenhauer
pagine 254

   





Antistene Plut Epict