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      Perché s'intenda bene la relazione loro, nessuna espressione val meglio di quella usata nel mio scritto introduttivo: il carattere intelligibile di un uomo doversi considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed è quindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno di quello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme del principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la vita dell'uomo medesimo. Come tutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetuto dell'unico e identico impulso, il quale nel modo più semplice si presenta nella fibra e si ripete nell'aggregamento di fibre, onde risultano foglia, picciuolo, ramo, tronco, essendovi facilmente riconoscibile: così tutte le azioni dell'uomo non sono che la manifestazione ripetuta ognora, al quanto diversa sol nella forma, del suo carattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla somma di quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma non mi metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposizione magistrale di Kant, bensì faccio conto che sia già conosciuta.
      Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'importante capitolo sulla libertà del volere, nella mia premiata memoria per concorso su quel tempo; ed ho soprattutto scoperta la cagione dell'inganno, per cui si crede di trovar nell'autoconscienza, come fatto reale, un'assoluta libertà del volere data empiricamente, ovvero un liberum arbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acutamente, il problema messo a concorso.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Kant