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      Che la nostra intolleranza di esso procede massimamente dal fatto, che noi lo riteniamo venuto per caso, provocato da una catena di cause, la quale potrebbe agevolmente essere diversa. Per il male immediatamente necessario e affatto universale, come è per esempio la necessità della vecchiaia e della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamo rattristarci. È piuttosto il considerar l'accidentalità delle circostanze, le quali ci produssero un dolore, che dà a questo il pungolo. Se invece abbiamo conosciuto, che il dolore come tale è inerente all'essenza della vita, od è inevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma in cui si presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro dolore attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello non fosse, immediatamente un altro subentrerebbe, per ora impedito dal primo; che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il destino; allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione vivente, portar seco un notevole grado di stoica imperturbabilità, e diminuir l'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtà una sì efficace signoria della ragione sopra il dolore direttamente sentito, la si trova di rado, o mai.
      D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilità del dolore, e sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e che il dolore nuovo interviene con lo sparir dell'antico, potrebbe condurci alla paradossale, ma non stolta ipotesi, che in ciascun individuo la misura del dolore in lui sostanziale venga una volta per sempre determinata dalla sua natura: la qual misura né potrebbe rimaner vuota, né superata, per varia che fosse la forma del dolore.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368