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      Il suo soffrire o godere non sarebbe quindi determinato punto dal di fuori, ma solo da quella misura, da quella disposizione, la quale bensì potrebbe, per lo stato fisico, aver qualche diminuzione o accrescimento secondo le epoche, ma in complesso resterebbe la medesima e non altro sarebbe, se non ciò che si chiama il temperamento dell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi, secondo s'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, è ??????? oppure ?????????, ossia d'animo leggero o grave. In favor di questa ipotesi non soltanto parla la ben nota esperienza, secondo cui i grandi dolori ci rendono affatto insensibili ai minori, e, viceversa, nella assenza di dolori grandi, anche le minime molestie ci tormentano e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora, che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrividire solo a pensarla, è effettivamente sopravvenuta, il nostro animo resta nondimeno, tosto superato il primo schianto, pressoché immutato; e così, all'opposto, dopo l'avvento d'una felicità a lungo sognata, non ci sentiamo in complesso e alla lunga notevolmente meglio e più soddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle mutazioni si presentano ci scuote con particolar forza, sia come profondo dolore, sia come alta gioia; ma questa e quello rapidamente svaniscono, perché si fondavano sopra un'illusione. Sorgono invero non già dall'immediatamente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un nuovo avvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo a prestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormalmente intensi: e quindi non durano.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Platone Repubblica