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      Che ogni poesia epica o drammatica ha soltanto capacità di rappresentare uno sforzo, un'aspirazione attiva, una lotta per la conquista della felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduce il suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino alla mèta: appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere il sipario. Che altro non le resterebbe, se non mostrare che la luminosa mèta, in cui l'eroe sognava di trovare la felicità, era una beffa; e quando l'ha toccata, egli non si trova meglio di prima. Poiché una vera, durevole felicità non è possibile, non può nemmeno essere oggetto dell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone di rappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio come tale non si può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, o diventa epico, ed è allora semplicemente un epos di poco rilievo, intessuto di piccoli dolori, piccole gioie, e piccoli sforzi: e questo è il caso più frequente; o si riduce a poesia descrittiva, descrive la bellezza della natura, cioè propriamente il puro conoscere fuor della volontà, che invero è in effetti il solo bene reale, cui né sofferenza né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto, né tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non può riempir tutta la vita, bensì appena qualche istante. Quel che vediamo nella poesia, ritroviamo nella musica, nella cui melodia già riconoscemmo, genericamente espressa, la più intima storia della volontà resa consapevole di sé, la più segreta vita, aspirazione, sofferenza, gioia, il flusso e riflusso dell'umano cuore.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368