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      Così al medesimo Hobbes, il quale caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo fargli intendere l'a priori del diritto: perché egli si è asserragliato contro ogni conoscenza non empirica.
      La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della morale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si compie, non già a quella che si subisce. Che solo la prima è esplicazione della volontà, e la morale non considera se non la volontà. Il subire è un semplice accidente: solo in via indiretta la morale può considerarlo, ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa determinazione del limite, fino al quale un individuo può arrivare nell'affermazione della volontà già oggettivata nel suo corpo, senza che codesta affermazione diventi negazione di quella volontà medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltre dovrebbe determinar le azioni, che andando oltre il limite sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter essere impedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimarrebbe così oggetto dell'indagine l'azione sola.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Hobbes