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      Ma intanto siamo noi stessi l'oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi d'aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell'amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora considerato come segno d'un certo grado di bontà del carattere, e disarma l'ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l'origine delle sue lagrime:
      I' vo pensando: e nel pensar m'assaleUna pietà sì forte di me stesso,
      Che mi conduce spessoAd alto lagrimar, ch'i' non soleva.
      Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Petrarca