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      Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questo e non altro è filosofia. Richiamo alla memoria il passo, citato nel primo libro, di Bacone da Verulamio.
      Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo è il modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione della volontà di vivere, ossia la condotta di una bell'anima, di un santo rassegnato, che faccia volontaria penitenza. Essendo intuitiva e non astratta la conoscenza, da cui nasce la negazione della volontà, non può trovar la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì esclusivamente nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio comprendere ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi tolti all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di certo nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente benigna, bisognerà contentarsi di legger le biografie di quegli uomini. La letteratura indiana, come già possiam vedere dal poco che finora ne conosciamo in traduzioni, è assai ricca di biografie dei santi, dei penitenti, detti Samani, Saniassi, e così via.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





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