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      Col presepe va la festa, i canti, gli spari. Come se fosser poche le grida del giorno, per tutta la notte si ode lo sparo di fuochi d’artifizio, che dai balconi si gettano su la via, non importa se cadono in capo a qualche povero diavolo che passa digiuno. Una volta questi mi parevano costumi barbari e avrei voluto distruggerli, oggi mi piacciono, e so che sono antichissimi. I vecchi napoletani, come i romani, celebravano le feste di Saturno nel mese di dicembre; celebravano il natale dell’anno che incomincia dopo il solstizio d’inverno, il 25 dicembre che ha la notte più lunga; e tra le vivande del sacro rito era l’anguilla, o il capitone, emblema dell’anno che ritorna sopra sé stesso, erano i mustacciuoli che dicevano mustacca, mustaccola, fatti di mosto, farina, e mele, e i sosamielli, sesammeli, fatti di grani di sesamo e mele, ed in forma di cerchio o di serpe, e più propri de’ napoletani perché greci.
      Ora la festa è un misto di pagano e di cristiano, di antico e di moderno: quel che v’è di barbaro non è certamente l’antico.
      In casa don Domenico ci fu tutto quello che voleva la devozione e la ghiottoneria. Venti commensali erano assisi intorno una ricchissima mensa carica di argenti, di cristalli, di porcellane, di fiori: e ci erano altri due ancora: un pappagallo a cui la morbidissima donna Mariantonia di tanto in tanto rispondeva cocò e mandava qualcosa nel piattello; e un grosso cane barbone chiamato Fedele, che stava col muso su le ginocchia di don Domenico, che gli gettava in aria qualche boccone, e il cane lo chiappava.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





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