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      Andato via il custode, ei picchiò a la porta, e a traverso la porta facemmo questo dialogo. “Signore, vi chiedo perdono di quelle parole: volete fumare? Ecco qui: io ficco la cannuccia della pipa che è accesa pel buco che è nella porta, e voi potete tirare il fumo.” “Ti ringrazio, ho da fumare.” “Perdonatemi: ieri io era ubriaco.” “Da quanto tempo sei arrestato?” “Oh signore mio, da che son nato: da quindici anni e ne ho venticinque. Senza mamma e senza padre, fui arrestato dalla polizia e non sono uscito più.” “Sei condannato?” “Non signore: sono uscito due volte, ma senz’arte senza parte ho rubato per mangiare, e sono tornato dentro. Per non sentire la disperazione quando ho danari mi ubriaco, e ieri venni a parola con uno che mi diede uno schiaffo, ed io gli ruppi la testa con un fiasco.” “L’hai ammazzato?” “Signornò, è una ferita leggiera.” “Quanti prigionieri siamo?” “Ieri eravamo duecentocinquantadue, oltre i rei di stato compagni vostri che stanno sottochiave, e che non so quanti sono. Signore, mi avete perdonato?” “Via non pensarci più.” “Vi ringrazio: e se posso servirvi in cosa, comandatemi”. Io osservai mestamente che secondo l’opinione di costui i rei di stato dovevano essere trattati peggio dei ladri: sospettai da prima che fosse una spia; ma poi mi consolai a udire quelle sue parole che mi chiedevano perdono e mi rivelavano un buon cuore. Povero giovane! dopo due giorni fu menato altrove.
      Per lunghe ore passeggiavo nella stanza, passeggiavo per la diagonale, stendevo nove passi e mi rivolgevo ora sul lato destro ora sul sinistro acciocché non mi girasse il capo; così avevo veduto fare un leone nella gabbia, e poi vidi che così passeggiavano tutti i carcerati.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





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