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      La franchezza e spensieratezza del giovine, le mance, la bontà dell’indole napoletana che si vede anche in un carceriere quando non deve infierire per comando, la consuetudine di tre mesi, erano le cagioni per le quali egli poteva fare il diavolo nella sua stanza e non se ne curavano. Un avvertimento di tanto in tanto: egli rispondeva con una barzelletta, e di lì a poco tornava da capo. La sera adunque ci mettemmo a la parete, e si parlò un pezzo. Seppi ogni cosa, e che in Napoli c’era stato un altro denunziante, il quale spontaneamente era andato a dire ogni cosa al ministro, aveva presentato diplomi e catechismo, e detti i nomi convenzionali cui erano indirizzate le lettere, e fatte sorprendere alcune lettere, tra le quali ce n’era una mia. Io non dirò il nome di costui.
      Fra i giovani che nell’anno 1864 ascoltavano le mie lezioni nell’università veniva un bel giovanetto, che era attento, ingegnoso, e mi stava sempre intorno con un certo affetto. Gli dimandai il suo nome, ed ei mel disse: era figliuolo di quel denunziante. Possa questo giovane diventare un onesto uomo, e non sapere mai che suo padre fu un malvagio, che suo padre fece piangere molti, che fece la spia, e per prezzo ebbe quindici ducati il mese. Se io profferissi quel nome io ucciderei quel povero giovane.
      Seppi dunque da Pasquale che l’accusa più grave cadeva sul fratello; che tutti avevano negato, finanche il servo a cui si era cercato di far paura, ma egli era rimasto fermo e faceva lo stolido; che l’Anastasio doveva essere arrestato la stessa notte dell’8 maggio, ma che avvertito a tempi fuggì ed era nascosto: insomma l’affare era più grave che io non avevo immaginato.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





Napoli Pasquale Anastasio