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      Spesso una di queste voci era un’istoria. Indovinate come dicevamo guardati? Hamschatcha! Va e intendi.
      Questa lingua carceraria fu, come si poté, comunicata a tutti, imparata, arricchita da tutti, e si parlava dalle finestre. Il custode maggiore più volte ci avvertì di non parlare turchesco, perché ci erano persone mandate dal ministro che ci ascoltavano. “Se mi comandano di chiudervi le finestre, io le chiudo, e voi starete all’oscuro. Parlate almeno in certe ore quando non c’è l’ispettore”. Il custode era un dabben uomo, non aveva ordini severi contro di noi, e diceva di volerci bene perché aveva buone mance, un tanto la settimana, due piastre, assegnategli dai Musolino. Onde noi stavamo con più riguardi, ma si parlava da le finestre. Io dissi a Pasquale che mandasse il nostro vocabolario al fratello, ed egli lo mandò per mezzo d’un carcerato: e quando ci fummo accertati che egli l’aveva ricevuto ed imparato bene a mente io gli scrissi in quella lingua ciò che aveva saputo dalla bottiglia, che la causa era grave, che se Annibale stava in Italia, Scipione assaltava l’Africa: ritorciamo il ferro contro il nemico, diciamo che la polizia essa proprio ci calunnia ed ha inventata la setta. Ebbi grande difficoltà a scrivere queste cose in quella lingua: pure c’intendemmo: il disegno di difesa piacque, e fu fermato: ma per allora queti e zitti.
      Un giorno udimmo entrare un nuovo prigioniero nella stanza contigua a quella di Pasquale; e questi, come aveva fatto con me, prese a tempestare, e seppe che era Raffaele Anastasio: “Sei stato arrestato?


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





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