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      Tra i due cancelli era un custode che pigliava e porgeva le robe. Nessuno poteva vedere persona o parlarle se non a traverso quei brutti e sozzi cancelli di legno; e di qua e di là era un affollarsi, un urtarsi, un gridare, un guardare in bocca per intendere le parole. La folla, l’afa, il puzzo era niente verso le grida del nostro popolo che parla gridando, e le cantilene dei chiamatori. I chiamatori sono quei prigionieri che hanno la buona grazia dei custodi e il privilegio di chiamare gli altri per prezzo; hanno poi il dovere di fare la spia, di battere i cancelli, e di accompagnare i custodi quando vanno ad aprire le segrete. Chi cerca vedere un prigioniero, deve dare una moneta al custode e dirgli il nome: ed il custode per farsi udire in quel frastuono sbatte forte il chiavaccio della porta, e ripete il nome al primo chiamatore, e questi ad un secondo, sino all’ultimo che è nella parte più anteriore del carcere. Onde senti gridare in cantilena tanti nomi da tanti vocioni squarciati, e dopo le grida od i lazzi e le oscene parole e le ingiurie, e le bestemmie: e bisogna pagare la chiamata. Non si può immaginare che inferno era l’udienza in certe ore del giorno, e che nefande cose vi si dicevano e vi si facevano.
      Dopo l’udienza si scendeva nel primo camerone, che era una grotta oscura, lunga, con un po’ di lume giù in fondo che veniva da un finestrone. All’entrare gli occhi non vedevano nulla, e se non avevi uno che ti guidava a mano, correvi il rischio d’infrangerti una gamba.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271