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      Non vidi Amilcare Lauria, ottimo difensor mio e di Filippo, perché egli non ebbe cuore di vederci.
      Quando i miei figliuoli udirono che io andava all'ergastolo, mi corsero innanzi, e abbracciandomi e piangendo, dicevano: "Non vi vedremo più". La madre li sgridò per quel pianto sconveniente: io li racconsolai, dissi che fidassero in Dio, obbedissero la madre, si ricordassero di essere figliuoli miei. Essi, con la madre, ed i miei fratelli assistettero al nostro pranzo. Non dirò che sentii e che dissi in quel momenti, perché sono segreti del cuore. Mia moglie mi stava vicino, i figli mangiavano con me.
      Intanto ci fu annunziato di dover partire. Uscimmo fuori il carcere, dove trovammo legati i nostri amici che ci abbracciarono come se fossimo risuscitati dal sepolcro. Fummo appaiati con le manette, e con una fune che univa le coppie: e detto addio agli altri prigionieri che ci salutavano, a don Ciccio ed a don Giulio che stavan muti, tra due fila di gendarmi movemmo. Noi conoscevamo tutti questi gendarmi, perché essi durante la discussione della causa ci avevano custoditi. Il capo disse loro di andare adagio, e di non maltrattare il popolo. Noi dicemmo che si tenessero presso a noi, usassero buone maniere col popolo e non dubitassero. All'uscir dalla Vicaria gran folla di gente si accalcava sulle strade e dalle finestre: ci accompagnavano, ci seguivano, ci precedevano. Noi eravamo ventitré condannati. Da ogni sguardo era ricercato Salvatore, più conosciuto al popolo, ed egli salutava tutti, rispondeva, interrogava, dava animo agli afflitti.


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Ricordanze della mia vita
Volume Secondo
di Luigi Settembrini
pagine 356

   





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