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      Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò.
      Non usciremo, don Michele.
      Ed io vi dico che usciremo subito.
      Usciremo morti.
      No, vivi, per Dio: mi han veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano, nel 1820 e nel 1848, mi rivedranno così la terza volta, e diranno come dissero: 'Costui non muore più'.
      Sì, ne usciremo dopo trent'anni.
      No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia in un momento.
      Noi siamo morti.
      Siamo vivi, ed io vivrò sino a novant'anni: lo sento: così sarà. Voi non mi fate paura, none, none! Non ci facciamo il malaugurio!
      E così vive il povero vecchio condendo una scodella di fave o di pasta, che egli stesso pulitamente si cuoce, con quest'accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi più contrastata più cresce: sicché egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!
      Santo Stefano, 7 dicembre (1854).
      Ed anche nell'ergastolo doveva io trovare uno che mi ravvivava le primissime memorie della mia fanciullezza, e che dice di avermi portato tra le braccia quando ero fanciullo. Costui è di Avella, paesetto vicino Nola, e chiamasi Stefano Simeone: è qui da trent'anni, ed attende la grazia sovrana solita a concedersi agli ergastolani che per trent'anni serbano buona condotta. È amato da tutti come buonissimo forzato, quando s'ubbriaca non fa altro che ridere. Io ne vidi la moglie, donna provetta, ma bella asciutta, intatta per serbata castità, per amore che ella porta al marito, che ella è venuta a vedere ventisei volte in trent'anni (esempio unico), perché ella mi diceva: "Mio marito è innocente: la notte che fu commesso il misfatto pel quale è condannato, egli era con me coricato, eravamo sposati da otto mesi.


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Ricordanze della mia vita
Volume Secondo
di Luigi Settembrini
pagine 356

   





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