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      Solamente pochissimi hanno detto che le mie parole sono state acerbe, che molte cose io poteva non dirle, e che ho scritto un libello e non la mia difesa. Costoro non capiscono o non vogliono capire che in questa causa non si tratta della vita o della morte di quarantadue persone, ma della sorte del nostro paese; onde io ho dovuto parlare non solo di me, ma delle cagioni che hanno prodotto questo giudizio e ridotta la nostra patria nelle presenti infelici condizioni. E le cose che ho detto sono una minima particella di quelle che io sapeva e poteva dire, e che ora per buone ragioni ho taciute. L'acerbità poi sta nei fatti, non nelle parole: ed i fatti non son opera mia: distruggete i fatti, negateli se potete, negatene anche uno, ed allora io sarò acerbo e libellista. Ma fintantoché i fatti saranno fatti ed innegabili, dovete arrossir voi che li fate, non io che li dico. È dispiaciuto il modo: io non so l'arte d'inzuccherare le sozzure, amo di parlare schietto proprio e breve, farmi capire da tutti, e dire al pane pane, e al sasso sasso. Se tu sei ladro, che colpa ho io che ti chiamo ladro? Sii un santo, ed io ti chiamerò santo e ti adorerò. È dispiaciuto che io ho detto alcune poche verità, che [ho] disvelato le arti oblique e nefande con cui la polizia istruisce i processi, e con cui ha istruito questo dell'Unità italiana; che ho parlato della costituzione ed ho detto che tutti i mali che sono avvenuti in questo paese, e gli altri che infelicemente e necessariamente avverranno, nascono da una fazione cieca retrograda e cosacca, la quale da due anni cospira per togliere la costituzione, che ormai è un bisogno generale di tutti i popoli civili; la quale vorrebbe veder tornati i beatissimi tempi del santo uffizio ed il ricco mercato dei ladri.


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Ricordanze della mia vita
Volume Secondo
di Luigi Settembrini
pagine 356

   





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