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      È cosa veramente singolare che non siasi conservato verun documento del linguaggio adoperato dal popolo d'Italia fino alla fine del decimo secolo. Il dottissimo Muratori ricercò con infaticabile pazienza tutti i vecchi archivj, tutti i depositi d'antiche scritture di famiglie e di comunità, senza che siasi abbattuto a scoprirne una sola dettata in quell'idioma che chiamavasi volgare, diverso dal latino riservato ai dotti, dal romano che parlavasi nelle Gallie, e dal tedesco dei popoli venuti dal Settentrione. Pare per altro che la lingua volgare avrebbe dovuto essere non solo quella del comune conversare, ma ancora quella delle lettere famigliari e del commercio. È dunque a credersi che gl'Italiani fino ad dodicesimo secolo non sospettassero nè meno che il loro dialetto potesse scriversi. Per la stessa ragione non si troverebbero forse dell'età nostra atti o lettere scritte ne' dialetti limosino, piccardo, normanno, piuttosto che in francese, o ne' dialetti bolognese e genovese piuttosto che italiano(428).
      Sembra probabile che ne' tempi della potenza romana i provinciali avessero una viziosa maniera d'esprimersi in latino, e che s'avvicinassero fin da que' tempi al moderno italiano. La mescolanza delle nazioni barbare contribuì non poco a corrompere ancor più questo linguaggio provinciale, introducendovi gli articoli ed i verbi ausiliarj adoperati nel Settentrione per tener luogo delle declinazioni e delle conjugazioni latine che rendevano la grammatica troppo complicata(429). Il sermone volgare, che così chiamavasi, dovette essere il dialetto abituale de' campagnuoli e de' cittadini, ma non dei nobili, i quali, comecchè d'ordinario niente meglio educati de' loro inferiori, essendo quasi tutti di razza allemanna, oltre la lingua volgare che dovevano necessariamente parlare, avevano pure conservato l'uso della tedesca.


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Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo
Tomo I
di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
1817 pagine 281

   





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