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      Questi è il loro mestiere, si suol dire, quando ci si parla dei patimenti dei soldati, come se il patimento fosse un mestiere. Allora la guerra non era un mestiere, nè era abbandonata a soldati mercenari, stranieri di cuore alla causa che sostenevano, e che, per avvezzarsi alla loro condizione, debbono chiudere gli occhi sulla sproporzione del pericolo cui vengono esposti e lo scopo che si propongono. Il soldato italiano combatteva sempre presso alle mura della propria città, non solo per la salvezza della patria, ma ancora per la propria, per ottenere un fine ch'egli conosceva, e per servire ad una passione che divideva coi suoi concittadini. Se aveva la disgrazia di essere ferito, non languiva negli ospedali, abbandonato alla dura indifferenza di subalterni chirurgi; ma ricondotto la stessa sera alla propria casa, l'amorosa cura che di lui si prendevano la consorte, la madre, le sorelle, gli facevano quasi dimenticare i suoi dolori. Se periva sul campo di battaglia, periva nell'entusiasmo d'un patriotta per una cagione creduta sacra, tra le braccia de' suoi amici e de' suoi concittadini; non era contato tra i morti come un semplice soldato, come un essere ideale destinato soltanto ad aver luogo nel ragguaglio d'una battaglia in mezzo ad una colonna di numeri. Si sapeva d'aver perduto un uomo ed un cittadino, ed era pianto come uomo e come cittadino. La stessa sera della battaglia, se la notizia della sua perdita non era portata alla famiglia, doveva egli stesso tornare ad abbracciare i suoi figli.


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Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo
Tomo II
di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
1819 pagine 316