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      Spilluccammo i grani piú grossi, stufi d'uva. Mi dette un grano tondo, grosso come una noce, limpido.
      Disse: «La guardi che man che go!». Piccole, ma di pelle callosa, tagliuzzata alla punta delle dita, nera di pentole, le unghie rosicchiate. Disse poi: «Lei la ga bele man». Poi gridò: «Ala, Toni, scuminziemo!».
      Lo zio di Vila, il padron di casa, pulí un bicchiere con la fodera della giacca e m'offrí da bere. Bevvi.
      Zappavano l'uva, curvi, aggrappati sull'orlo del tino, anelando come i taglialegna. Le gambe pelose, rosse, alternavan la battuta con frenesia, e il tino si squassava sotto i colpi. Gli acini e i gusci e il succo schizzavano tra le larghe dita dei piedi. Vila stava dritta, tenendosi sul tino. Le sue unghie eran diventate rosse.
      Poi le gambe degli zappatori scomparvero fino alla coscia nello sguazzacchio vinoso. Il doppio colpo divenne metodico, come di stantuffo. Pesante e uguale.
      Lo zio di Vila beveva, radendosi il succo dai mostacchi setolosi con il dorso della mano. Il suo grifo era rosso.
      Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini ubbriachi. Assorbivo un caldissimo odore asfissiante. Gli uomini s'accendevano. Rovesciarono una brenta piena di mosto, e il vino schizzò a ondata sull'uomo e sul muro, corse a rivoletti impetuosi, tinse la gatta spaurita. Uno si buttò per terra a sorbire la motriglia vinosa.
      Il padron di casa bestemmiò, rise, mi tese un bicchiere di mosto. Bruciava. La cantina era bassa e rossastra.
      «Vila, un toco de legno per la bota!»
      Io corsi prima di lei, per scappar via; ma ella mi rincorse.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
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Toni Vila Vila