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      Pioveva. La notte era oscura e fangosa. Scridivano gli agostani. Mi prese per mano e correndo mi baciò il braccio nudo, sgocciante d'acqua.
      Io dissi: «Vila» a bassa voce, meravigliato.
      Nella cantina gli uomini zappavano ritmicamente, il padron di casa beveva, la gatta si leccava il pelo intriso.
      Mi sedetti contento per terra. Correvo per una lunga strada piena di sole. Correvo, correvo.
      Quando il sole è alto nel luglio, correndo nei prati l'uomo si ferma perché il respiro è pieno d'un veleno e d'un calore cosí dolci e forti ch'egli deve sdraiarsi nel sole e dormire. Chiude gli occhi, e le palpebre gli fiammeggiano come cielo infocato, e da tutte le parti s'alzano vampate immense barcollanti d'albero in albero. L'aria trema inquieta nell'arsura.
      Ma m'alzai furioso e corsi in campagna, gridando come un falco ch'abbia lasciato per la prima volta il suo nido.
     
     
      La sua camera aveva un intonaco a stampi rossocinerini, mattoni slabbrati per pavimento, un pianoforte coperto da un canovaccio crocettato, un letto, un armadio con su boccette medicinali e una civetta impagliata. Una lastra della finestra era di latta rugginosa, con un foro per il tubo della stufa. Siccome il foro s'era slargato, d'inverno, quando mettevano la stufa, Vila incassava con le punte delle forbici un po' di stracci intorno al tubo. E fumigavano.
      Non era bella la casa dove stava Vila! Io entravo come un ladro inesperto, ripiegato in tasca il mio frustino da cani, il mio bel frustino che schioccava con un colpo secco come d'acciaio, camminando lesto in punta di piedi, trattenendo il respiro.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





Vila Vila