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      Forse anche, Vila non m'amava, non m'aveva mai amato. Avevo lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so com'era di me. A volte mi buttavo sull'erba, stanco e scontento. Ero inquieto e mi sarebbe piaciuto star qualche volta solo, benché avessi bisogno di sentirmela vicina. E perciò, quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non capii perché le avevo dette e per rabbia misi la mano dentro una siepe di rovo. Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul terreno: un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batuffoletto di seta del pioppo, che s'estendeva tutt'intorno in lenti filamenti argentei per l'opera predace di decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi guardò a lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva piú e che mi seccava assai.
      Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò. Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.
      Ma la mattina dopo Vila mi sfuggí. Correndo a perdi fiato io l'accerchiai di lontano e sbucai fuori da un cespuglio davanti a lei. La presi per i polsi e le dissi duro «Coss' ti ga?». «Ti ga volú ti.» Si svincolò, e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l'incontrai, mi prese le mani e le baciò.
      Io fui subito contento di non esser piú con lei; ma avevo confusi desideri, non m'interessava niente, m'annoiavo. A volte disteso per terra, con gli occhi semiaperti nel cielo accarezzavo le giovani foglie, e d'un tratto m'avvoltolavo nell'erba dura dei prati.
     
      Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





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