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      Agguanta un ramo carico di susine e lo divarica puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con lui. Tonfa un enorme pietrone fra le crote dello stagno che gracidano a squarciapancia, e l'acqua putrida schizza e l'inonda. Si scuote, con una scarponata schianta il pesco nano e si slancia avanti sghignazzando come un satiro in fregola.
      Viva la vendetta! Ma io sono quieto e maligno. Apro silenziosamente la roncola, e incido la vite sottoterra perché muoia e nessuno saprà perché. D'una stangata rompo la cima del pero, e m'acquatto di colpo per timore che il crac svegli qualcuno.
      Silenzio. Le rane. I cani lontano. Una stella cadente.
      Ucio chiama dal melo. Egli divora e stronca: per ogni pomo un ramo. Io unghio fondo, uno per uno, i grandi pomi che piacciono molto al padron di casa. Mi lecco le unghie.
      Ah? Ucio! come la cacciò via, ah?!
      Era una notte come questa. Gridarono nel quartiere del padrone. Il nostro campanello sonò disperatamente. Balzo a sedere sul letto, l'uscio di babbo s'apre, apre la porta. Vila si precipita in camicia piangente: «El me copa, 'l me copa. El me cori drio col s'ciopo!»
      Papà incatenacciò l'uscio. Disse calmo: «Qua drento no vien nissun. La se calmi». Vila tremava e si torceva le mani.
      «I me lassi andar, i me lassi andar, li prego. No 'l me fa niente. I scusi. No savevo de chi andar. Ah dio, dio!»
      Un pugno sulla porta: «Vila!!». Vila saltò su; papà la fece sedere e andò ad aprire. Non c'era piú nessuno. Ma Vila scappò via, corse dalla famiglia di Ucio, poi rivolò giú a casa sua.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





Vila Ucio