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      Io sono stanco.
      Mi volto bruscamente. Lassú è il monte Kâl. Perché scesi?
      Bene: ora sei qui. E qui devi vivere. Mi abbranco il petto con le mani per sentire se il mio corpo è, e resiste. E dunque avanti. Io voglio entrare nella taverna piú lurida di Cità vecia.
      Fumo e puzza. Soffoco. Ma accendo anch'io la pipa, fumo nel fumo, e sputo. «Camarier! mezo quarto de petess.» Anche l'acquavita io posso bere, se altri la bevono, e questo bicchiere è pulito, se altri possono accostarci le labbra e trincare. Sull'orlo di questo bicchiere ci può essere, invisibile, l'agonia per tutta la mia vita; ma io bevo. E alzo gli occhi sui miei compagni.
      Un carbonaio, dalla spalla sinistra cresciuta come un enorme tumore, sputa chiazze nere. Una donna con peli duri sul labbro, spruzzati di cipria, si netta la bocca con le dita cicciose. Sotto la tavola lo scamiciato che le sta seduto dirimpetto le tira, freddo, una ginocchiata fra le gambe. Tra i capelli neri, unti, della padrona della bettola splende rosea al becco del gas una natta. La guardo oltre il fondo appannato del bicchiere.
      «Camarier! 'ncora mezo quarto!» E picchio col pugno chiuso sulla tavola zoppa. Mi guardano, e continuano i loro discorsi.
      Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la camicia blu parlano d'una brocca di stagno, come fu rubata. Altri schiamazzano e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto è duro e definito come gli spigoli del corso. S'io dò un pugno sul muso di quel facchino, lui mi tira due pugni. S'io faccio la filantropia schiave-bianche a quella donna, essa mi risponde dandosi una manata sul culo.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





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