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      Perché la patria era mescolata al risotto alla milanese e all'ipermanganato di potassa al 3%. La patria era per loro come quando i giornali pubblicarono il telegramma della morte di Carducci, e un po' piú in su, un po' piú in sotto, dicevano della neve in Carinzia, e dell'ambasciatore francese in viaggio.
      Io mi meravigliavo. Io sentivo la patria, esclusiva e sacra. Mi tremava il petto leggendo di Oberdan. Avrei voluto morire come lui.
      E seguivo sulla carta geografica le campagne di Garibaldi, commovendomi degli eroi. Garibaldi mi fu un venerato amico e dio. Ancora oggi quando sento parlare storicamente di lui, il cuore mi balza in rivolta. Io sono ancora un bimbo che vorrebbe combattere sotto i suoi occhi.
      Ma noi nascemmo in altra generazione. Noi cantammo per le strade:
     
      All'armi, all'armi! Ondeggianole insegne giallo e nere.
      Fuoco, per dio! sul barbaro,
      su le tedesche schiere;
     
      scappammo davanti alle guardie di pubblica sicurezza e lontani, a branchi, continuammo a cantare:
     
      Non deporrem la spadafin che sia schiavo un angolo
      dell'itala contrada.
      Non deporrem la spadafin che sull'alpi Giulie
      non splenda il tricolor.
     
      E a casa trovammo la mamma piangente di affanno e di paura per noi. Ci si bacia, e si va a dormire, soddisfatti.
     
     
      Io ebbi uno zio garibaldino che a quattro anni mandava in lettera al babbo un pezzo di pane di collegio per fargli gustare che roba gli davano; e a tredici scappò dal collegio, di notte, gridando: "Viva l'Italia!", e camminò, senza un soldo, da Fiume a Venezia, per arrolarsi con Garibaldi.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





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