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      Abbia anche l'uomo la sua solitudine.
      Carso, mia patria, sii benedetto.
     
     
      Ma una notte il dolore fu quasi piú forte di me. Lo sentivo raccogliersi a goccia a goccia, e l'anima sí chiudeva arida e indifferente, cercando di non dargli presa. Io so la paura. Non si capisce altro: ora quell'uomo viene avanti e m'ammazza. Io non posso muovermi. Non posso sottrarmi. Fare strepito, no. Devo guardarlo fisso.
      Cosí era di me. Camminavo rabbrividendo sulle scaglie calcaree, sonanti come piastre di ferro ai miei passi, fra cespugli e pini giovani. Lo strepito dei miei piedi non mi faceva terrore; ma mi sgomentavo, sudante, come la scaglia toccata scivolava piú in giú, urtando le altre, crepitando fra stecchi e foglie. L'anima era stanca e non voleva piú patire. Voleva rimanere sola e oscura. Pregava con nenia, che non venisse il dolore, che non venisse l'affanno, che la lasciassero sola e oscura. Ma non c'era pace nella preghiera; non m'ascoltavo. Ero tutto teso e doloroso verso uno sfrondare improvviso, un lampo, un colpo di fucile, uno scroscio. Una terribile cosa presentita; che mi può cogliere qui, da questa macchia nera, dietro quel muricciolo, eccola. Correvo, per sfuggire il dolore che m'inseguiva fra i cespugli mossi, verso il cielo aperto, dove si vede da tutte le parti intorno, nella luce dell'orizzonte stellato.
      Ma nell'infinito notturno fui piú solo e senza difesa. Solo, col mio dolore, unico compagno, buon compagno, da reclinare la testa in lui e piangere. Piansi come un bimbo sperduto.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103