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      Così tutta la filosofia greca è ontologismo: l'assoluto è sempre l'ente, non ancora lo spirito. Perciò i greci non intesero la creazione.
      Quanto a Roma, sanno tutti che ella non ebbe una filosofia propria. Pe' romani la pura speculazione è già qualche cosa di indifferente, e la pigliano da' greci. Così la relazione tra nazionalità e filosofia diventa ancora più larga, la stessa nazionalità romana non è così esclusiva come la greca; assorbe, non esclude; e così cessa di essere una determinazione puramente naturale: è già, come ho detto, qualcosa di umano. I romani aveano altro a fare nel mondo che teorizzare sull'universo; il loro interesse era il volere, l'attività pratica, la potenza: non contemplare l'universo naturale, ma fare l'universo umano. E ne fecero uno, ma a loro modo, cioè da un lato solo. Per fare l'universo veramente umano, ci voleva una nuova contemplazione, un nuovo oggetto, una nuova idea di Dio, una nuova religione, una nuova filosofia. Essi non compresero l'umanità che come diritto, come pura ed astratta manifestazione del volere. Il diritto romano trascende i limiti di una nazionalità determinata; come diritto privato esso è già diritto umano. Questa forza di astrazione, questo separare il diritto da tutta la sostanza etica della vita, dalla morale e dalla religione, questa potenza che non ebbero i greci, è il più gran pregio dello spirito romano. Il filosofo romano, Cicerone, era inferiore alla stessa realtà romana. La romana coscienza era arrivata a separare il diritto dalla morale: e Cicerone filosofando - cioè riflettendo sulla realtà (qui umana) - confondeva ancora, come i greci, diritto e morale.


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La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea
di Bertrando Spaventa
Editore Laterza Bari
1908 pagine 286

   





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