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      Da questi due fatti insieme si deve inferire, che i Romani non abbiano creato essi medesimi quelle voci, ma le abbiano invece ricevute da altre nazioni circonvicine, e usate così pregne come erano di filosofici sentimenti, senza intenderne la forza del significato; e tali sentimenti, proprii di queste nazioni, abbiano formato il tesoro antichissimo dell'italica sapienza.
      Sul primo di questi fatti ho detto abbastanza, nel considerare il significato generale della ricerca. E pure, se questo fatto non è vero, la conclusione di Vico non è giusta. Se, dovunque vi ha vocaboli, che poi ci appariscono pregni d'una certa dottrina, o anche di un sentimento filosofico, si dovesse presupporre originalmente l'esistenza d'una filosofia, non saprei come si potrebbe principiare a filosofare, e nè anche a parlare. È dottrina o sapienza la intuizione o la rappresentazione contenuta nella parola e nel mito; e nondimeno la parola e il mito non sono ancora la filosofia. Vico risolve, quanto a' Romani, la difficoltà della esistenza di que' vocaboli, supponendo che fossero stati creati da filosofi di altre nazioni; ma la difficoltà rinasce in tutta la sua forza rispetto a queste medesime nazioni. Come si formarono tali vocaboli nel seno di queste nazioni? Per una qualche interna dottrina, cioè per opera di filosofi. E come fu possibile tale filosofia, prima di que' vocaboli; cioè, come, p. e., si potè aver prima il concetto proprio e filosofico del genere, della specie, della causa, etc., senza i vocaboli genus, species, causa, etc., e creare tai vocaboli dopo aver pensato i concetti?


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La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea
di Bertrando Spaventa
Editore Laterza Bari
1908 pagine 286

   





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