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      Così, oltre alcune idee semplici, identità, diversità, etc., la stessa idea di unità deriva, secondo Galluppi, dall'unità sintetica dello spirito.
      In terzo luogo, egli chiama la coscienza in generale dell'Io e del Non-io (me e fuor di me), sensibilità; la quale afferra la sostanzialità dell'Io e del Non-io immediatamente, direttamente; e perciò è senso, non giudizio (non intelletto); ricettività, non spontaneità. Galluppi non s'accorge che la sua sensibilità è tale solo di nome, e che quella sostanzialità dell'Io e del Non-io è tutt'altro che percezione sensibile, e non è altro che il contenuto necessario e originario della coscienza di sè (Kant e Fichte), cioè il puro conoscere: quel conoscere, che Galluppi vuol appunto combattere col suo realismo fondato nella percezione.
      Infatti, Galluppi distingue tre cose: la sensazione, la percezione della sensazione o la coscienza, e l'oggetto della sensazione. Egli dice: "la coscienza di qualunque sensazione è inseparabile dalla coscienza del me". Ciò è vero, ma questa coscienza, e in generale la coscienza, non è senso interno, e Galluppi stesso la distingue dalla sensazione come tale: essa è intelletto, o senso divenuto intelletto. Come va, dunque, che Galluppi chiama la coscienza anche sensibilità interna? Ammesso che la coscienza della sensazione sia inseparabile dalla autocoscienza, ne segue forse che la stessa sensazione come tale sia quest'autocoscienza? La sensazione come tale non è coscienza; cioè la coscienza non è sensibilità. Qui dunque Galluppi sbaglia, e si contradice.


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La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea
di Bertrando Spaventa
Editore Laterza Bari
1908 pagine 286

   





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