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      Bisogna pur dire che il franco ed ingenuo modo con cui gli fu annunziato che sarebbe posto in carcere non produsse una molto grata impressione sul pover’uomo, che s’era sempre pregiato d’un onesto e savio genere di vita.
      Sì, dobbiamo confessarlo: Tom erasi piuttosto insuperbito della propria onestà, perché non aveva altro al mondo di cui andar superbo. Se avesse fatto parte di una delle più alte classi della società, non sarebbe stato certamente ridotto ad una sì misera condizione.
      Intanto il giorno declinava, e la notte trovò Haley e Tom stabiliti comodamente a Washington, l’uno in un’osteria, e l’altro in un carcere.
      Alle undici antimeridiane circa del giorno seguente, una fitta calca di popolo ondeggiava dinanzi all’ingresso della Corte di giustizia, fumando, masticando tabacco, bestemmiando e conversando ciascuno secondo il suo gusto particolare e la propria indole, e tutti aspettando l’ora in cui si doveva procedere al pubblico incanto.
      Gli schiavi esposti alla vendita formavano un gruppo a parte, e discorrevano sottovoce fra loro.
      La donna che era notata negli annunzi col nome di Agar, offriva in sé, per le fattezze e per la conformazione, il vero tipo africano. Poteva avere sui sessant’anni, ma le infermità e le gravi fatiche l’avevano fatta invecchiare prima del tempo. Era quasi cieca, e andava tutta curva e storpia per dolori reumatici.
      Accanto ad essa vedevasi suo figlio Alberto, vago giovinetto di quattordici anni, che solo le era rimasto di una numerosa famiglia i cui membri erano stati venduti insieme per il mercato del paese meridionale.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





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