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      Dovevo governare settecento schiavi che non conoscevo e verso i quali non sentivo alcun interesse personale; farli dormire, mangiare, lavorare con precisione militare; guidarli come gregge; fissar loro l’orario del riposo e dello svago; dover ricorrere agl’ispettori e agli aguzzini, e adottar sempre, per ultimo argomento, la frusta, tutto ciò mi era insopportabile. E allorché riflettevo a quanto m’aveva insegnato mia madre sul pregio di un’anima umana, la nausea diveniva orrore e ribrezzo. Oh, nessuno venga a dirmi che gli schiavi amano la schiavitù! Mai ho potuto tollerare le insulsaggini che, nel loro zelo per scusare i nostri peccati, spifferano a questo proposito alcuni dei vostri filosofanti del Nord: noi tutti conosciamo un po’ meglio le cose. Nessuno venga a dirmi, ripeto, che un uomo è contento di lavorare tutti i giorni della sua vita, dallo spuntar dell’alba fino alle tenebre della sera, sotto la continua e severa vigilanza d’un padrone, senza aver libero un solo atto di volontà, curvato sempre sulla stessa arida, monotona, invariabile fatica; e tutto questo, perché? Per due paia di brache e un paio di scarpe all’anno, con tanto di cibo e di sonno, quanto basti appunto a mantenergli le forze per lavorare! Io auguro ad ogni uomo, il quale pensa che creature umane possano lodarsi di questo sistema, gli auguro di farne l’esperienza egli stesso. Quanto a me, comprerei volentieri quel cane che sostenesse una simile tesi, e lo farei lavorare senz’ombra di scrupolo.
      — Ho sempre pensato — disse miss Ofelia — che i vostri pari approvassero queste cose e le credessero giuste, secondo la Sacra Scrittura.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





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