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      — Tu parli come uomo, Saint-Clare. Si può alleviare il peso d’una madre nelle cure che si richiedono per una fanciulla in quello stato? Ma è sempre così: nessuno intende mai quello che io provo. Non posso mica prender le cose come fate voi! —
      Saint-Clare sorrise; e dobbiamo scusarlo se poté sorridere. Perché quella creaturina, nel dipartirsi da loro, era così tranquilla e serena, una brezza sì soave spingeva la sua navicella verso le celesti rive, che nessuno avrebbe potuto credere all’appressarsi della morte in quella forma.
      La fanciulla non sentiva dolore ma solamente una soave stanchezza ognor crescente; ed era così bella, fidente, felice, che effondeva la pace intorno. Saint-Clare sentì una strana calma insinuarsi nell’animo suo. Ma la speranza ormai diventata impossibile non era rassegnazione, bensì una sicurezza del presente, così soave, che egli non si curava dell’avvenire. Era come la dolcezza malinconica che proviamo in autunno quando i boschi cominciano a impallidire, quando gli ultimi fiori sbocciano sugli argini, e noi tanto più godiamo di quella vista, in quanto che sappiamo di non averne a godere a lungo.
      Quegli che meglio conosceva i pensieri e i presentimenti d’Evangelina era il suo amico e fedel servo Tom. A lui essa confidava tutto ciò che non avrebbe detto a suo padre per timore di affliggerlo troppo. A lui comunicava quei misteriosi avvertimenti che l’anima riceve quando i vincoli con cui è stretta al suo carcere di argilla cominciano ad allentarsi.
      Tom finalmente non volle più coricarsi nella sua cameretta, ma passava le notti nella veranda, pronto ad ogni chiamata.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





Saint-Clare Evangelina Tom