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      Nel passare, gettò uno sguardo in parecchie di esse, che erano totalmente nude, né altra suppellettile avevano che un mucchio di paglia immonda sul pavimento, trita e indurita dal lungo uso.
      — Quale di queste capanne è per me? — domandò a Sambo con voce sommessa.
      — Non so. Puoi entrar qui, m’immagino: — disse Sambo — credo che vi sia posto ancora per uno. Abbiamo un gran numero di negri in ciascuna di queste capanne, e non saprei proprio come ficcarvene di più. —
      Era già notte quando gli abitanti del quartiere vi tornarono in folla, uomini e donne, con vesti sozze e lacere, inaspriti ed assai mal disposti ad accogliere nuovi compagni.
      Non si udiva nel piccolo casale alcun suono grato all’orecchio, ma solo voci rauche e gutturali che contendevano presso i mulini a braccia in cui gli schiavi dovevano macinare il cattivo frumento per le focacce che erano la sola loro cena.
      Fin dai primi albori del giorno essi lavoravano nei campi, stimolati continuamente dal minaccioso frustino degl’ispettori, poiché si era allora nel più forte del raccolto e nulla trascuravasi per sfruttare senza pietà tutte le forze dei lavoranti.
      — Ma, — dirà qualche ozioso sbadatamente — cogliere il cotone non è poi una gran fatica! —
      Oh, davvero! Anche il sentirsi cader sulla testa una goccia d’acqua non è doloroso; eppure era una delle torture più crudeli dell’Inquisizione, quella goccia d’acqua che cadeva lenta in una successione monotona e sempre al luogo stesso.
      Il lavoro non è grave in sé, ma lo diviene per necessità di un continuo faticare con triste, invariabile uniformità, e senza il conforto almeno del sentimento d’una libera accettazione di tanta noia.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





Sambo Sambo Inquisizione