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      Ella tacque lungamente. Non poteva essere di proposito, perché per Angiolina sarebbe stata un'arte troppo fine. Ella taceva probabilmente perché non trovava altre parole per scolparsi, e camminarono in silenzio uno accanto all'altra nella notte strana e fosca, il cielo tutto coperto di nubi sbiancate in un solo punto dalla luce lunare.
      Arrivarono dinanzi alla casa d'Angiolina ed ella si fermò, forse per prendere congedo. Ma egli la costrinse a procedere: Camminiamo ancora, ancora, così muti! – Allora, naturalmente, ella lo compiacque e continuò a camminare tacendo a lui da canto. Ed egli l'amò di nuovo, da quell'istante, o da quell'istante ne fu consapevole. Gli camminava accanto la donna nobilitata dal suo sogno ininterrotto, da quell'ultimo grido d'angoscia ch'egli le aveva strappato lasciandola, e che per lungo tempo l'aveva personificata tutta; persino dall'arte, perché ormai il desiderio fece sentire ad Emilio d'aver accanto la dea capace di qualunque nobiltà di suono o di parola.
      Oltrepassata la casa d'Angiolina, essi si trovarono sulla via deserta e oscura chiusa dalla collina da una parte, dall'altra da un muricciuolo che la separava dai campi. Ella vi sedette ed egli s'appoggiò a lei cercando la posizione che aveva preferita in passato, durante i primi tempi del loro amore. Gli mancava il mare. Nel paesaggio umido e grigio imperò la biondezza d'Angiolina, l'unica nota calda, luminosa.
      Era tanto tempo ch'egli non sentiva quelle labbra sulle sue che n'ebbe una commozione violenta.


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Senilità
di Italo Svevo (Ettore Schmitz)
pagine 258

   





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