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      La grossa scrittura di Sanneo anneriva tutto il foglio su cui era stata copiata, quella di Miceni si riproduceva intiera, nitida come nell'originale, i grossi tratti e larghi di White si sviluppavano nella copia a macchie indistinte.
      In contabilità Alfonso salutava Miceni e si fermava talvolta a scambiare qualche parola con lui. Vi si costringeva contro voglia perché sentiva che Miceni non gli voleva bene. Il tavolo nuovo di Miceni aveva già assunto l'aspetto del vecchio: calamaio, penna, matita disposte nel medesimo ordine, il grande librone su cui lavorava perpendicolare alla linea marginale del tavolo. Conteggiava su minuti foglietti di carta che riempiva di cifre microscopiche.
      Alfonso non sapeva gioire del suo avanzamento. Era realmente avanzato, perché se anche tutti si divertivano a rammentargli ch'era ben lungi dall'avere il posto di Miceni, aveva abbandonato l'offerta, la copiatura, il lavoro imbecille del servo che maneggia la penna invece della scopa. Ma quando alla sera gli venivano restituite metà delle sue lettere con annotazioni di Sanneo, disperava e avrebbe preso volentieri il primo treno per ritornare a casa sua e lasciar quelle lettere da rifare al signor Maller stesso. È ben vero però che se poco dopo Sanneo apponendo il suo segno ad una lettera, faceva col capo un cenno d'approvazione, Alfonso, per quanto grande fosse stata la sua stanchezza, riprendeva di gran lena il suo lavoro.
      Stanchezza? Somigliava meglio a nausea. Lentamente il suo lavoro di giorno in giorno aumentava, ma in qualità di poco o nulla mutava.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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