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      Quando Macario per la prima volta gliel'aveva descritta, quella donnetta che si era sentita nascere improvvisamente una vocazione aveva destato la sua ilarità, per quanto da questa vocazione egli venisse avvantaggiato. Era ridicolo anche quell'apparato, quei preparativi per formare a sé d'intorno una società letteraria, e se egli non ne rideva non era per il nuovo suo sentimento. Egli scorgeva con facilità il lato ridicolo o falso nelle opere altrui, ma spesso gli accadeva di non saperne ridere perché per la soggezione in cui con facilità lo tenevano persone a lui del resto inferiori finiva col dubitare di sé, della giustezza del proprio sentimento o del proprio giudizio. Anche qui non si trattava d'altro. In Annetta gl'imponeva la mancanza di dubbî, la sicurezza, l'incuria dell'impressione che potesse produrre in altri il suo contegno, infine l'aspetto di superiorità da persona che non si sente diminuita da nessuna inferiorità e magari nella stessa cosa in cui vuole eccellere, inferiorità di solito avvilente.
      Prarchi parlò di un suo romanzo naturalista.
      — Rimarrò medico — diceva — anche essendo romanziere. Si tratta di studiare un lento corso di paralisi progressiva. I medici cominciano a studiarla quando è già completa; io invece allora l'abbandonerò. La studierò nel suo formarsi. Carattere da paralitico, organismo da paralitico, idee da paralitico e che arrechino dei disturbi alle persone che lo contornano e... il romanzo è fatto.
      — Sì — esclamò Annetta — il romanzo sì, ma il successo?


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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