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      — Quando penso quello che a dieci anni pensavo di divenire a trentacinque e quando considero quello che sono mi vengono i sudori freddi, — aveva detto ad Alfonso allorché questi gli aveva chiesto notizie della sua salute. Era la sua idea fissa.
      Da poco era entrato alla corrispondenza un nuovo impiegato, certo Bravicci, un giovinetto che non sapeva far nulla, ma ch'era stato raccomandato tanto bene che lo si era messo subito in paga e con una paga superiore a quella di Alfonso. Andava vestito trascuratamente e spesso sucidamente; lavorava di schiena a quel lavoro di copiatura a cui Sanneo lo aveva relegato. Dai colleghi non era amato e Ballina gli dedicava il suo odio speciale.
      — Possiede cento o duecentomila franchi e viene qui a togliere il pane di bocca a noi poveretti.
      Alfonso non voleva crederlo.
      — Infatti, — disse Ballina, — sarebbe difficile crederlo e, se non si sapesse che tanto più denari si posseggono tanto più imbecilli si diventa, sarebbe impossibile.
      Poi dimenticando Bravicci, in uno slancio di vecchio buon umore senza fiele, asserì che anch'egli faceva più sciocchezze ai primi del mese, appena ricevuta la paga, che alla fine; intanto agli ultimi del mese non spendeva che quello ch'era necessario e non più.
      Il lavoro alla banca ora bastava ad Alfonso perché fatto in misura enorme e con attenzione intensa, sempre nuovamente stimolata da un incontro con Maller o da un saluto brusco di Cellani. La sera usciva dalla banca esausto, tranquillo, soddisfatto del lavoro compiuto, e anche fuori d'ufficio con la mente vi ricorreva volontieri.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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