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      VIIEgli lesse le leggi della tribù e vi trovò in embrione tutto quanto esisteva negli Stati moderni più perfetti. Avrebbe potuto qua e là correggere o completare. Sentiva un gran desiderio di ostentare la propria dottrina dettando nuove leggi che la tribù ignorava perché il suo stato economico, ancora rudimentale, non le chiedeva. Ma egli non era uno sciocco e non volle esporsi ad essere deriso.
      Il vecchio Hussein gl'incuteva un grande rispetto. Costui, che nei tempi passati era stato l'uomo più eroico e più generoso della tribù, ne era ora il più perspicace, il più acuto. Quelle leggi, che certamente erano opera sua, erano chiare, semplici. Dettate per regolare conflitti avvenuti sotto gli occhi stessi del legislatore, non contenevano alcuna contraddizione. Uno spirito superiore e semplice aveva precisato nei singoli casi le affinità e le diversità.
      Perciò Achmed non credette di poter mentire per salvare il proprio denaro. Doveva dire la verità; e la verità - o quella ch'egli pensava tale - non poteva soddisfare Hussein.
      Passò la notte insonne. Verso mattina gli balenò un'idea: "Forse mi riuscirà di salvare il mio denaro e fondare con esso la mia fabbrica".
      VIIIIl dì appresso, presenti tutti gli anziani, cominciò dal dichiarare che la storia della tribù non era altro che la storia stessa dell'umanità. Prima, finché nomade, la tribù costituiva un solo individuo che lottava per la vita; ora, nel progresso, ogni suo membro era divenuto un lottatore per proprio conto. I più forti vincevano e soggiogavano i più deboli.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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