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      Al povero Vincenzo invece esso creò l'unica arme ch'egli sapesse maneggiare. Un'arme che doveva ferire tanti e anche lui stesso.
      Poco dopo sposò la fanciulla che lo amava. A lui parve di sacrificarsi da quel buon figliuolo che era per far piacere a suo padre, a sua madre e alla stessa fanciulla che lo voleva. Già, non volendo bene, il matrimonio non è poi quell'impedimento ad alte imprese come generalmente si crede.
      E fu nei primi mesi del suo matrimonio ch'egli sospettò quale potenza infernale fosse insita nel suo occhio. Camminava solo per i campi poco fuori della piccola cittadina in cui si riteneva esiliato. Voleva essere solo per ritrovarsi. L'affetto della giovine sposa lo tediava. Aveva bisogno di essere solo. In tasca teneva l'ultimo volume del Thiers nel quale Vincenzo si compiaceva di leggere come il Titano aveva accumulato errori su errori che ora lo schiacciavano. Titano cieco! Aveva visto funzionare un modello di ferrovia e non aveva capito il partito che avrebbe potuto trarne per signoreggiare il mondo!
      In quella vide una grande folla uscire dalla cittadina facendo uno schiamazzo di gente entusiasmata. Gli uomini avevano levato il cappello e lo agitavano salutando verso l'alto; le donne agitavano dei fazzoletti. Anche Vincenzo guardò in alto. A qualche centinaio di metri d'altezza e contro vento camminava un dirigibile. Nel sole meridiano brillava come un enorme fuso di metallo. Gli scoppi regolari del suo motore riempivano l'aria. Era l'evidenza stessa di una grande vittoria e Vincenzo guardava, guardava e pensava ai difetti di quell'ordigno, in primo luogo vedeva il pericolo di quell'enorme quantità di gas accensibile che lo sosteneva.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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