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      Ma i colpi del duro becco, che piovvero su lui, certo non erano baci e gli tolsero ogni dubbio. Volle fuggire, ma il grosso uccello lo urtò e, ribaltatolo, gli saltò addosso immergendogli gli artigli nel ventre.
      Con uno sforzo immane, Curra si rizzò e corse alla siepe. Nella sua pazza corsa ribaltò dei pulcini che stettero lì con le gambucce all'aria pigolando disperatamente. Perciò egli poté salvarsi perché la sua nemica sostò per un istante presso i caduti. Arrivato alla siepe, Curra, con un balzo, ad onta di tanti rami e sterpi, portò il suo piccolo ed agile corpo all'aperto.
      La madre, invece, fu arrestata da un intreccio fitto di fronde. E là essa rimase maestosa guardando come da una finestra l'intruso che, esausto, s'era fermato anche lui. Lo guardava coi terribili occhi rotondi, rossi d'ira. - Chi sei tu che ti appropriasti il cibo ch'io con tanta fatica avevo scavato dal suolo?
      - Io sono Curra - disse umilmente il pulcino. - Ma tu chi sei e perché mi facesti tanto male?
      Alle due domande essa non diede che una sola risposta: - Io sono la madre, - e sdegnosamente gli volse il dorso.
      Qualche tempo appresso, Curra, oramai un magnifico gallo di razza, si trovava in tutt'altro pollaio. E un giorno sentì parlare da tutti i suoi nuovi compagni con affetto e rimpianto della madre loro.
      Ammirando il proprio, atroce destino, egli disse con tristezza: - La madre mia, invece, fu una bestiaccia orrenda, e sarebbe stato meglio per me ch'io non l'avessi mai conosciuta.
      ORAZIO CIMAI
      Avevo circa 25 anni quando nelle riunioni sociali di Trieste fece la sua comparsa un ricco signore abruzzese certo Cima.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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