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      E Antonia non aveva nulla in contrario che provassi anch'io la caccia. Era certa che, provatala una volta, non l'avrei amata. Anche lei era stata a caccia, ma una volta soltanto. In sua presenza, Argo, il cane da caccia di Cima, aveva ricevuto una pallinata nella schiena perché non s'era tenuto fermo. Orrore! E Cima poi non aveva voluto far levare, da un chirurgo che s'era offerto, da quella schiena quei pallini perché diceva che acciocché un cane ricordi una lezione, deve portarla eternamente con sé.
      Insomma io e Antonia andavamo molto d'accordo, con la differenza ch'essa biasimava Cima ed io invece avrei tentato di aiutarlo. «Non vi riuscirà» diceva Antonia accarezzandomi con l'occhio. M'amava perciò. Io speravo ch'essa sbagliasse ma intanto mi stendevo sotto a quella sua carezza come un gatto nervoso e voluttuoso. Volevo mutarmi e tuttavia incassavo il premio per essere fatto tanto malamente. Anche quando si ha il desiderio della metamorfosi, il più vivo, si sorride affettuosamente ai propri difetti. Rabbrividisco quando penso che avrebbe potuto toccarmi in sorte di essere un insetto dalle varie metamorfosi. Che rimpianti nella farfalla per quella vita modesta e adagiata comodamente del verme. Io conobbi un gobbo che aveva tanto bene attrezzato il proprio spirito intorno alla protuberanza che aveva nella schiena che sarebbe stato un uomo perduto se avesse potuto curarla. Era il gobbo più spiritoso di Trieste... Ma egli qui proprio non c'entra.
      Io fra i due, insomma, stavo benissimo.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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