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      Abbandonai il giornale che non conteneva altro che potesse interessarmi e addirittura mi gettai all'educazione di Argo.
      Ebbi subito il sentimento di dare della testa nel muro. Lo stupido animale vedendosi aggredire da gesti e suoni, raccolse tutto il suo sapere e mi porse la zampa! Una, due, venti volte! Aveva intuito che gli si domandava di far mostra di quello che sapeva e porgeva la zampa! La dava sempre col medesimo gesto ampio. Doveva, per diventare umano, dimenticare il gesto del cane addomesticato al quale s'era arrestato come all'estremo limite della sua educazione.
      Già quella prima sera perdetti la pazienza. Argo andò alla cuccia con la coda fra le gambe ma tuttavia posso dire che il suo stato era meno miserevole del mio. A letto ritornai alle insolenze al lontano dottore. Dovevo lasciare in pace il povero cane che non era la colpa del mio esilio.
      Ma non era facile di accettare tanta inerzia come quella cui ero condannato avendo accanto Argo che m'offriva la possibilità di un'attività veramente sconfinata. Prima di allora, per scotermi, correvo alla stufa e giocavo col fuoco; ora, ad onta di ogni proposito, cadevo continuamente accovacciato accanto ad Argo. È l'unica posizione nella quale si possa parlare con un cane. L'innocente, dapprima, quasi per uno strano pudore guardava altrove quando vedeva un uomo nella posizione di un cane; poi vi si abituò. Ed ogni giorno furono venti e cento le lezioni. Piovevano le busse e i pezzettini di zucchero. Quando lo poteva, Argo cercava di sottrarsi a quella tortura.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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